“We shall pay any price, bear any burden, meet any hardship, support any friend, oppose any foe, in order to assure the survival and the success of liberty.”
Il 20 Gennaio del 1961, dalla collina di Capitol Hill, il Presidente John Kennedy, rivolgendosi alla nazione la esortava a sopportare ogni peso e a pagare qualsiasi prezzo in nome della difesa della libertà.
Gli Stati Uniti orami da 16 anni erano impegnati nella sfida ideologica, economica e militare che aveva come unico e ultimo obiettivo il contenimento dell’ U.R.S.S. e dell’espansione globale del Comunismo. La politica estera americana dal 1947 seguendo le linee tracciate dall’amministrazione Truman cercò di evitare con ogni mezzo che l’influenza sovietica (e dal 1949 anche quella cinese) si espandesse, mettendo a rischio la supremazia americana conquistata grazie allo sforzo bellico nella Seconda Guerra Mondiale.
A inizio anni Sessanta, nel momento in cui la leadership americana iniziava ad erodersi, e nuovi competitori si affacciavano sullo scenario internazionale, l’amministrazione Kennedy rinnovò, reiterpretandola, la sfida lanciata (o accolta, dipende dai punto di vista) da G.Kenan, proponendo accanto alla strategia del contenimento una più audace e innovativa “missione”: la “Nuova Frontiera”.
La sfida rilanciata dall’amministrazione Kennedy, aveva però un limite strutturale, che allo stesso tempo rappresentava il suo punto di maggior forza ma anche la sua debolezza. L’universalità della missione americana, rifacendosi alla tradizione wilsoniana, non consentiva all’establisment americano distinzioni geo-politiche, tanto meno militari. Il “gioco a somma zero”, dove il guadagno di una parte (U.S.A.-U.R.S.S.) implicava la perdita di influenza della controparte, non consentiva ai politici americani di interpretare con chiarezza le differenti situazioni geo-politiche e di elaborare, quindi, una risposta adeguata alla situazione che si aveva davanti. Non è difficile intuire come agli occhi delle amministrazioni, Berlino, il Vietnam o l’America Latina rivestissero, quindi, la stessa importanza strategica, e come ognuna di essa fosse di fondamentale importanza per la propria sicurezza e quella del mondo Occidentale. L’universalità della missione americana non permetteva eccezioni o distinzioni di nessun genere e fu così che il Vietnam divenne, per l’amministrazione Kennedy, una pedina fondamentale nella lotta al comunismo.
A inizio anni Sessanta “perdere” il Vietnam non avrebbe avuto solamente ripercussioni catastrofiche a livello strategico ma anche psicologico. Già dalla metà degli anni Cinquanta, l’amministrazione Eisenhower si era convita che se il Vietnam del Nord, guidato dal leader comunista Ho Chi Min, avesse allargato la propria influenza sul Vietnam del Sud, governato dal dispotico e corrotto regime di Ngo Dinh Diem, con l’appoggio degli americani, sarebbe stato impossibile evitare un “effetto domino” in tutto il Sud-Est asiatico.
La paura di perdere il Vietnam, il timore di un conseguente “effetto domino” in tutto il Sue-Est asiatico, così come era stata persa la Cina a fine anni Quaranta, spinse gli Stati Uniti a sostituirsi alla Francia nella penisola indocinese, e attraverso il sostegno economico e politico a mantenere in vita il fragile governo del Vietnam del Sud.
La penisola indocinese era stata divisa in diverse entità statuali nel 1954 con gli accordi di Ginevra, che diedero vita, oltre ad un Vietnam del Nord e uno del Sud, al Laos e Cambogia. Nei due stati, divisi dal 17° parallelo, si sarebbero dovute tenere elezioni politiche entro il 1956 con l’obiettivo di unificare la nazione sotto un unico governo. Nonostante ciò la paura americana di vedere sconfitto l’impopolare e corrotto regime del sud a favore di una vittoria elettorale delle forze comuniste, spinse l’amministrazione Eisenhower a inviare già nella seconda metà degli anni Cinquanta i primi consiglieri militari e i primi aiuti economici al governo di Diem.
Gli aiuti e l’assistenza americana, non sortirono però gli effetti desiderati, il governo di Diem a inizio 1960 era sempre più impopolare, la corruzione dilagava e le riforme in senso democratico sperate e volute dall’amministrazione Kennedy, che nel 1960 aveva vinto le elezioni presidenziali, stentavano a decollare, creando imbarazzo e perplessità tra l’opinione pubblica americana. Oltre ad attraversare una difficile e profonda crisi interna, il Governo Diem era insediato anche dall’esterno. Sempre più forte era, infatti, l’appoggio popolare dato ai Viet Cong, un gruppo di guerriglieri sud-vietnamiti sostenuto dall’Esercito popolare del Vietnam del Nord che lottava, adottando tattiche di guerriglia, per liberare il territori del sud e unificare il paese nel nome del socialismo.
L’impegno americano in Indocina aumentò dunque rapidamente e gia a metà del 1961 il numero dei consiglieri militari americani nel Vietnam del Sud arrivava a 3000.
Le aspettative dell’amministrazione Kennedy continuavano però ad essere tradite dall’ambiguo regime del Vietnam del Sud e fu così che il 1 Novembre 1963 un gruppo di colonnelli dell’ esercito, aiutati e appoggiati dal Dipartimento di Stato Americano, depose e uccise Ngo Dinh Diem, dando vita ad una giunta militare che si proponeva di unificare il paese e sconfiggere definitivamente la guerriglia comunista. Solamente 12 giorni dopo a Dallas il Presidente Kennedy veniva assassinato, lasciando nelle mani del suo successore, il texano Lindon B. Johnson, la difficile situazione indocinese.
Nonostante il cospicuo incremento di consiglieri militari in Vietnam tra, il 1959 e il 1963, non si può parlare di vera e propria guerra. Gli scontri armati tra il personale americano e l’esercito popolare del Vietnam del Nord furono inesistenti, i consiglieri inviati da Kennedy si limitavano, infatti, a supervisionare le operazioni militari a fornire supporto logistico e ad addestrare le truppe sudvietnamite.
A fine 1963 il coinvolgimento americano in Vietnam era, dunque, ancora marginale. La crisi nella penisola indocinese non calamitava ancora l’attenzione dell’opinione pubblica, e gli sforzi effettuati dall’amministrazione Kennedy per tenere nascosto o comunque sminuire il coinvolgimento americano, aumentarono tra il pubblico la percezione che il Vietnam fosse qualcosa di lontano che non gli avrebbe mai riguardati da vicino.
Tutto cambiò una mattina del 7 Agosto 1964 con l’approvazione della “Risoluzione del Golfo del Tonchino”. Tale risoluzione fu, ed è tutt’oggi, una tra le più controverse e dibattute risoluzioni della storia politico-istituzionale americana. Il 7 Agosto il Senato concesse ampio supporto per aumentare il coinvolgimento statunitense nella guerra “come il Presidente riterrà opportuno”. La risoluzione lasciava aperte due questioni di fondamentale importanza: la prima di ordine giuridico. L’escalation militare in Vietnam non fu preceduta da una formale dichiarazione di guerra del Congresso, la Risoluzione del Golfo del Tonchino, concedeva si pieni poteri al Presidente ma non rappresentava una dichiarazione di guerra. Il conflitto vietnamita a livello giuridico non poteva essere dunque considerato una guerra, in quanto gli Stati Uniti non elaborarono mai una formale dichiarazione.
La seconda questione sollevata dalla risoluzione del 7 Agosto era di ordine istituzionale. Il Congresso, concedendo al Presidente ampi poteri, rinunciava al proprio diritto costituzionale di controllo della politica estera. In base al Secondo Emendamento della Costituzione, spettava, infatti, ai due rami del Parlamento decidere come se e quando impiegare le forze armate in combattimento. Ma in assenza di una dichiarazione di guerra e grazie alla Risoluzione del Golfo del Tonchino Johnson potè impiegare le forze armate senza essere soggetto a alcun tipo di controllo istituzionale, dando vita ad un escalation militare che in 11 anni provocò più di 50.000 morti tra i soldati americani.
Tutto aveva avuto origine pochi giorni prima, quando il 31 Luglio 1964 l’incrociatore americano Maddox riprese una missione di ricognizione nel Golfo del Tonchino, che era stata sospesa per sei mesi. Lo scopo era di provocare una reazione da parte delle forze della difesa costiera nordvietnamita, da usare come pretesto per una guerra più ampia. La Maddox subì un danno superficiale ma che fu sufficiente come pretesto per iniziare il conflitto.
La tattica americana funzionò alla perfezione e poco meno di un anno dopo l’incidente, 3.500 US Marines sbarcarono nel Sud unendosi ai 25.000 consiglieri militari.
La strategia militare adottata dal dipartimento della difesa americano si fondava su un intenso bombardamento aereo delle postazioni nordvietnamite e delle installazioni dei Viet Cong, vera spina nel fianco delle truppe americane. L’imponente macchina bellica messa in campo dagli americani non bastò, tuttavia, ad avere ragione dell’agguerrita e ben organizzata resistenza vietnamita. L’illusione del Dipartimento di Stato di poter vincere la guerra in 40 giorni, si scontrò con le pesanti perdite subite dal contingente statunitense. A inizio 1966 le truppe americane in Vietnam salirono alla cifra record di 500.000, una forza spropositata se paragonata all’esercito nordvietnamita.
Il continuo incremento del coinvolgimento militare avvenne mentre l’amministrazione Johnson e il generale W.Wesmoreland assicuravano ripetutamente il pubblico americano che il successivo incremento di truppe avrebbe portato alla vittoria, la “luce alla fine del Tunnel” era ormai ben visibile.
Le ottimistiche convinzioni dell’amministrazione Johnson vennero frantumate la sera del 30 Gennaio 1968, quando nei salotti americani la televisione, strumento ormai fondamentale per condizionare l’opinione pubblica, trasmise le immagini dell’ “Offensiva del Tet”. Le truppe regolari dell’esercito popolare del Vietnam del Nord assieme ai Viet Cong organizzarono un imponente attacco nel sud. Pur non ottenendo alcun successo militare l’offensiva ebbe un forte impatto sul pubblico americano, creando la percezione che la guerra fosse ormai persa e che ogni ulteriore sforzo sarebbe stato inutile a risolvere una crisi iniziata male e conclusasi nel peggiore dei modi. Gli americani non tardarono a esprimere pubblicamente il proprio dolore e contrarietà ad una guerra che stava decimando un’ intera generazione e di cui non si capivano gli obiettivi. Le manifestazioni di opposizione al conflitto si moltiplicarono, dando vita nei campus universitari ad un acceso e spesso violento scontro sulle responsabilità americane, ma soprattutto sull’intera cultura statunitense. La generazione dei “Baby Boomers”, i figli nati dopo la Seconda Guerra Mondiale, diede vita ad un intenso dibattito politico-culturale sugli obiettivi della politica estera americana e sulla società nel suo insieme. La contestazione studentesca, che contemporaneamente dilagava in tutto il mondo, fu rafforzata dalla decisione del Dipartimento di Stato di ristabilire la coscrizione obbligatoria attraverso un sistema che fu chiamato “lotteria di leva”, il quale, attraverso un meccanismo perverso, estraeva a sorte le future reclute.
A fine 1968 ara chiaro che gli Stati Uniti avrebbero potuto vincere la guerra ad un prezzo che la nazione non era disposta a pagare, il tentativo di conquistare “i cuori e le menti” sia a casa che in Vietnam era fallito, spettava al nuovo Presidente R.Nixon trovare una via di uscita dal pantano vietnamita.
Nixon si rese subito conto che la guerra era ormai persa, adesso gli Stati Uniti dovevano riuscire ad ottenere una “pace con onore”. La strategia adottata da Nixon per sganciarsi dal Vietnam fu però estremamente ambivalente. Da un lato intensificò i bombardamenti sul Vietnam del Nord, allargando le operazioni militari anche al Laos e Cambogia, dall’altro iniziò a ridurre il contingente militare americano provando ad ottenere una vietnamizzazione del conflitto. L’obiettivo della vietnamizzazione era di mettere l’esercito sudvietnamita in grado di reggere sempre più lo scontro con l’esercito del Nord. La “Dottrina Nixon” non si limitò solamente ad un intensificazione dei bombardamenti e ad un contemporaneo ritiro, di fondamentale importanza risultarono essere le trattative diplomatiche avviate a fine 1969 con l’U.R.S.S. e soprattutto con la Cina che aveva una forte influenza sul governo comunista del Vietnam del Nord. Avvalendosi della preziosa collaborazione del Segretario di Stato H.Kissinger, Nixon cerco di indurre la Cina a fare pressioni sul Vietnam del Nord e allo stesso tempo cercò di spaccare definitivamente le già difficili relazioni tra la Cina e i sovietici. La diplomazia risultò, quindi, lo strumento più efficace per uscire dal pantano vietnamita, e così a metà 1969 a Parigi iniziarono le trattative tra le parti. Se Nixon fece della diplomazia uno strumento irrinunciabile per risolvere la crisi vietnamita, è però importante sottolineare che negli anni 1970-1973 furono sganciate più bombe sul Vietnam che in tutti gli anni precedenti e che morirono più soldati che durante la presidenza Johnson.
L’accordo di pace tra gli Stati Uniti e il Vietnam venne firmato il 27 Gennaio 1973, Nixon annunciò il ritiro unilaterale delle truppe americane, impegnandosi tuttavia a fornire aiuti economici e materiale militare al Vietnam del Sud. La strategia di Nixon per non perdere il Vietnam risultò comunque inefficace, il Congresso resosi conto del terribile errore fatto nel 1964 con la Risoluzione del Golfo del Tonchino, vietò ulteriori finanziamenti all’azione militare in Indocina e negò a inizio 1975 qualsiasi aiuto economico al Vietnam del Sud.
Fu così che il debole regime sudvietnamita ormai abbandonato, capitolò il 30 Aprile 1975. Il Vietnam del Nord fu annesso a quello del Sud il 2 Luglio 1976 dando vita alla Repubblica Socialista del Vietnam.
La sconfitta militare in Vietnam, la prima subita dagli americani, lasciò una profonda ferita nella cultura americana, esercitando una profonda influenza sulla politica estera americana, sulla strategia da adottare e sui mezzi per contenere l’Unione Sovietica. La politica del Contenimento, che aveva portato gli Stati Uniti in Vietnam, subì sostanziali ripensamenti. Gli americani non sarebbero stati più gli stessi, l’America aveva perso la propria innocenza nella giungla vietnamita.