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L'Italia repubblicana

Le linee orizzontali 2

Capitolo 4 – Il ’68, i movimenti, il terrorismo (1968-1980)

4.1 Movimenti sociali

Le due più importanti rivolte studentesche segnano il decennio cardine per la politica italiana. Dal 1978, con l’uccisione di Aldo Moro, la piega degli avvenimenti politici andrà in una direzione del tutto nuova.

Partiamo però dal famoso 1968. Perché proprio quell’anno salta il tappo costituito dalla cultura borghese affermatesi nel dopoguerra? Ed inoltre: fu davvero un movimento così profondo e determinante, oppure c’è una dose di sopravvalutazione da parte dei protagonisti?

Le cause

1.      La contestazione esplode nell’università. Gli effetti dell’aumento delle nascite nell’immediato dopoguerra e l’apertura dell’istruzione universitaria anche ai figli della classe media aveva reso la scuola italiana inadeguata: arretrata, disorganizzata e con strutture precarie.

2.      Tutto il mondo è in fibrillazione. Gli Stati Uniti sono coinvolti nella guerra in Vietnam scatenando contestazioni in patria e alimentando l’esplosione del fenomeno Hippy. Un messaggio che assumerà presto – anche grazie a forme nuove di comunicazione di massa, come la musica rock – dimensioni internazionali.

In Cina è in corso la rivoluzione culturale con l’invito di Mao a combattere contro le imposizioni dell’autorità[1].

Finiva con la morte di Ernesto Che Guevara il tentativo di riscattare l’intero continente con una serie di azioni militari basati sulla guerriglia. Il Comandante diventò presto un mito e un’icona della lotta e della libertà.A Parigi va in scena il “maggio francese”: la più grande contestazione vista in una città occidentale, tutta portata avanti da studenti e giovani auto-organizzati.

3.      La Chiesa Cattolica.

Papa Giovanni XXIII con l’enciclica Pace in Terris del 1963 e il Concilio Vaticano II cambia completamente la struttura della chiesa, che viene invitata ad aprirsi alle differenze maturate e affermatesi nelle società industriali. Un messaggio di tolleranza, speranza, coraggio che stimolerà l’azione di tanti esponenti della chiesa e di tante nuove esperienze associative.

Il più importante è certamente Don Lorenzo Milani e il suo testo “Lettera a una professoressa”, un vero e proprio manifesto di accuse al sistema di potere basato sulla ricchezza. Seguirà “L’obbedienza non è più una virtù”, pamphlet di altrettanta durezza a favore degli obiettori di coscienza.

Non a caso le prime università ad essere interessate dalla protesta furono quelle cattoliche (a Milano e Trento). Il Sessantotto inizia nel nome della contestazione all’autorità, alla messa in discussione delle gerarchie, dei modi e della prassi di relazione tra i diversi appartenenti alla scala gerarchica. In questo senso furono investite dalla contestazione tutte le forme di aggregazione basate sul principio dell’autorità: la famiglia, il partito (compresi quelli di sinistra come il Pci), i sindacati.

Cosa volevano i giovani contestatori?

Non c’è mai stato un chiaro programma politico e le diramazioni del movimento sono state talmente tante da rendere questa risposta comunque parziale. La retorica più attinente con le ragioni politiche fa individuare nella critica al consumismo e nella richiesta di maggiore libertà individuale i due punti cardine. Un forte attivismo e una decisa tensione morale attraversò per anni il mondo giovanile, disegnando sullo sfondo – magari in maniera confusa e non da tutti condivisa – la prospettiva della rivoluzione socialista anticapitalista: la rivincita dei poveri sui ricchi.

Una caratteristica assolutamente nuova era la connotazione borghese del movimento: non erano i figli del proletariato italiano, o del mondo contadino: erano i figli delle classi medie, delle famiglie che potevano permettersi di mandare i figli alle scuole superiori. Anzi, storicamente i giovani studenti erano in maggioranza di destra.

4.2 – Il movimento operaio

Non esistono solo gli studenti nel panorama del ’68. I sindacati, grazie alla forte crescita industriale, sono diventati forti e influenti. Gli operai però spesso scavalcano le sigle ufficiali, unendosi agli studenti nei frequenti scontri di piazza. I Sindacati reagiscono avvallando lo scontento: l’autunno del 1969 sarà ricordato come “l’autunno caldo”: scioperi a ripetizione, con oltre un milione e mezzo per lo sciopero generale. In un mondo strutturato intorno a grandi industrie il sindacato ottiene moltissimo: aumenti salariali importanti, consigli di fabbrica, 150 ore per la formazione, diritto di assemblea. Nel 1970 lo Statuto dei Lavoratori sancisce queste acquisizioni all’interno di un testo basilare per i diritti dei dipendenti.

A fronte di queste fondamentali vittorie, il movimento defluisce senza aver cambiato la struttura del potere in Italia, la sua articolazione, la sua inattaccabile prassi autoreferenziale fondata su fedeltà personali, accordi occulti, corruzioni e clientelismi dilaganti, nonché accettate e accolte in modo diffuso come inevitabili elementi della realtà.

Perché non è cambiato molto?

a.       Azione repressiva dello Stato. Il governo, ma più in generale l’establishment, risponde con una chiusura assoluta alle rivendicazioni poste dai giovani. A differenza della classe operaia i giovani studenti si trovano davanti ad una chiusura totale e alla difficile scelta se cercare altre strade oppure accettare il terreno di scontro violento.

b.      Utopismo. Slogan belli ma inefficaci: chiedere “tutto e subito” può essere affascinante ma non mette a fuoco le cose concrete che realmente possono migliorare la vita di tutti.

c.       Deficit democratico dei gruppi di estrema sinistra. In molti casi la dura gerarchia, la disponibilità all’uso della violenza, l’indifferenza verso la violazione della libertà e dei diritti umani nei paese socialisti (dall’assurda idolatria per Mao e il suo libretto rosso fino alla strumentale indifferenza verso i giovani dell’est Europa impegnati nel loro “sessantotto”) ha preso il sopravvento sui nobili principi di libertà e giustizia sociale.

d.      Divario lavoratori-studenti. I lavoratori orientarono le proteste verso i contratti di lavoro. Ottenuto quello la contestazione degli operai cessò. Gli studenti da soli mancavano di obiettivi intermedi a defluirono in mille rivoli di associazioni e contestazioni.

e.       Movimento minoritario. Anche se percepito dai protagonisti come un evento di massa, era in realtà un fenomeno minoritario. La larga maggioranza della popolazione – in Italia come in Francia – appoggiava i valori del consumismo e del benessere individuale criticati dal movimento. Era la vita privata – e non la prospettiva rivoluzionaria – il vero sogno degli italiani a fine anni Sessanta.

Conseguenze.

Il fronte caldo della contestazione suscitò reazioni in superficie e reazioni sotto la superficie. Del primo caso sono note tutte le mosse, politiche, sociali, economiche e culturali; del secondo caso invece il quadro è quanto mai fosco, i contorni non delineati, la rete di relazioni di difficile determinazione.

La Dc e la coalizione di governo risposero con un riformismo spiccio, soprattutto su pressione del Partito Socialista: pensioni, lavoro, referendum, riforma fiscale sono alcuni punti toccati dalla stagione legislativa a cavallo del decennio.

La finanza internazionale ritirò molti investimenti, causando un sensibile calo nella crescita e obbligando il Tesoro a svalutare la lira. L’Italia entrò così in un pericoloso tunnel di inflazione con bassa crescita. Come spesso avviene l’affermazione, anche parziale, della politica di sinistra a favore delle classi lavoratrici viene seguita da una “crisi economica” che risulta assolutamente funzionale alle grandi lobby nazionali e internazionali. La grande spinta dei movimenti di fine anni ’60 e dei ’70 è così pesantemente ostacolata da una serie ininterrotta di crisi finanziarie ed economiche. L’Italia sembrava avviata ad una trasformazione importante, ma improvvisamente – come già era successo con il Psi al governo – si blocca tutto.

Il fermento sociale spiazza la sinistra ma soprattutto spaventa quel blocco sociale reazionario pronto a tutto pur di riportare indietro le lancette della storia. Gruppi tradizionali cattolici, una buona parte di borghesia e di imprenditoria legata ai valori autoritari del periodo monarchico, esponenti ex fascisti o neofascisti dentro alle istituzioni anziché confrontarsi con le forze progressiste del paese scelgono la strada del sabotaggio (alcuni) e della reazione violenta (altri). Secondo un’altra lettura la svolta reazionaria attuata con il terrorismo degli anni ’70 sarebbe stata promossa utilizzando come scusa il presunto pericolo rivoluzionario: il disordine creato dalle manifestazioni degli anni ’68-’73, che ad uno sguardo oggettivo si dimostra in realtà di nessuna prospettiva rivoluzionaria, è stato però sfruttato per promuovere una serie di azioni – frammentate e spesso improvvisate – per colpire il sistema democratico e riportare in Italia un regime autoritario di destra. Il 12 dicembre 1969 esplode un ordigno in piazza Fontana a Milano uccidendo 17 persone: ha inizio la cosiddetta strategia della tensione. Non ci sono ovviamente prove dell’esistenza di un piano congeniato nella sua interezza, e probabilmente non esiste neanche una precisa intesa segreta tra pezzi importanti dello stato. Nella realtà però le contestazioni di piazza furono utilizzate come scusa da quel coagulo di forze antidemocratiche annidate dentro l’apparato statale per agire – al di fuori e al di sopra della legittimità del loro incarico – allo scopo di destabilizzare il clima politico, porre fine alle agitazioni e creare le condizioni per una svolta autoritaria.

Il mezzo per destabilizzare la vita politica del paese è quello degli attentati terroristici compiuti – rifacendosi ai casi in cui la magistratura è riuscita ad emettere sentenza – da estremisti di destra supportati e fiancheggiati da parti dei servizi segreti. L’idea è quella di impaurire la popolazione e disorientare i dirigenti: tra il 1968 e il 1974 si contano oltre cento attentati (pochi quelli riusciti) con decine di morti; una pratica che si prolungherà fino all’eccidio della stazione di Bologna, quando il 2 agosto del 1980 una bomba esplose uccidendo 85 persone e facendo oltre 200 feriti gravi. Non c’era solo il terrorismo nero (cioè di matrice fascista); nei Settanta si affermò un terrorismo rosso: gruppi di estrema sinistra che teorizzarono la lotta armata come strumento per conquistare il potere e realizzare la rivoluzione socialista. Le azioni delle Brigate Rosse e delle altre sigle della lotta armata puntavano a colpire funzionari statali e figure chiave dell’ordine costituito: magistrati, poliziotti, giornalisti, politici.

4.3 – Il compromesso storico

Enrico Berlinguer il segretario del PCI espone nel 1973, in seguito al drammatico colpo di stato in Cile che rovesciò il governo legittimo del socialista Salvador Allende, una nuova linea programmatica per il suo partito e per l’Italia: il “compromesso storico”.

Berlinguer teme uno scenario cileno per l’Italia: una maggioranza di sinistra contrastata dall’intero arco di centro-destra, con possibili svolte autoritarie. Anche la linea seguita dagli Usa non era, da quel punto di vista, per niente rassicurante. Secondo Berlinguer l’uscita dalla crisi politica, sociale ed economica – una crisi che minacciava la tenuta stessa della democrazia – era possibile solo con una grande alleanza tra i partiti di massa: la Dc e il Psi da una parte, il Pci dall’altra.

L’ala sinistra della Dc apre un tavolo di trattativa. La tensione sociale può essere abbassata solamente con la convergenza di intenti con il mondo comunista che era, ad ogni elezione, sempre più forte. Nel 1976 il Pci alle amministrative conquistò molte città, tra cui Roma, Firenze, Torino e una percentuale del 34.4% record assoluto. Insieme al Psi era a un passo dalla maggioranza. Malgrado i timori di Washington[2] nello stesso anno venne varato – sotto la prudente regia del presidente della DC Aldo Moro – il governo Andreotti con l’astensione tecnica del Pci. Sono i governi di Solidarietà Nazionale, che devono fronteggiare l’attacco alle istituzioni da parte delle Br, dei servizi deviati e dei terroristi di destra; la crisi economica successiva allo shock petrolifero e una stagione di contestazione politica ancora lontana dal concludersi.

Il compromesso storico raggiunse i risultati auspicati?

La scelta fu criticata aspramente da molti settori del mondo comunista e democristiano. Per molti militanti comunisti e di sinistra extra-parlamentare quella fu la pietra tombale sul movimento che voleva cambiare l’Italia. Per i settori conservatori l’abbraccio con il Pci appariva nient’altro che una resa al male assoluto.

Dal punto di vista politico fu la Dc a trarre i maggiori vantaggi. Con l’appoggio dei comunisti riuscì a gestire il conflitto e ad avviare una credibile azione sia politica sia militare con il terrorismo. Promosse inoltre una riuscitissima resistenza passiva alle riforme: riuscì ad eludere la risoluzione dei nodi storici del paese (inefficienza, clientelismo, particolarismi) attraverso l’estensione clientelare e corporativa di una rete di nuovi diritti e benefici. Perché i comunisti non fecero nulla per impedirlo?In un certo senso Berlinguer sacrificò la spinta dal basso per salvare la democrazia del paese. Delle aspettative di riforma legate all’ingresso del Pci in area governativa molte andarono perse quasi immediatamente. A distanza di anni però dobbiamo sottolineare come le leggi più avanzate e più “di sinistra” del paese sono state messe in atto proprio tra il 1970 e il 1979: Statuto dei Lavoratori, liberalizzazione accesso all’università, parità giuridica di genere, legge sull’interruzione di gravidanza, la scala mobile per il recupero del salario su scala inflazionistica, legge Basaglia per la tutela e i diritti dei malati di mente, equo canone e sussidi all’acquisto della casa, Legge Gozzini per la modernizzazione del sistema carcerario, istituzione del Servizio Sanitario Nazionale e delle Regioni, la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Non sono parti di un piano organico di riforme, ma una risposta non coordinata a esigenze pratiche e spinte dal basso.

Per riassumere:

a.       Il bicchiere mezzo pieno. Pci e Dc con i governi di solidarietà nazionale hanno salvato la democrazia in Italia da un attacco dell’estrema destra che attraverso decine di attentati terroristici e alcuni tentativi di golpe (il più serio non è mai stato nemmeno ideato, ma è indubbio che la loggia massonica P2 con centinaia di aderenti di primo piano della società italiana, rappresentasse un presupposto molto serio per una evoluzione di tipo golpistico). L’ipotesi di un successo militare, culturale e politico dei terroristi rossi per una soluzione rivoluzionaria appare invece del tutto irrealistica.

b.      Il bicchiere mezzo vuoto. Sull’altare del compromesso è stato sacrificato il secondo tentativo di riformare l’Italia. Se il Pci non riesce a guidare un progetto organico di riforme, è la Dc ad avere le maggiori responsabilità per la mancata svolta. Forse salva la democrazia, ma per farlo – per ricucire i conflitti e le tensioni – divide il paese in un crogiolo di categorie e rappresentanze, lobby e gruppi: la modernizzazione risulta non guidata, caotica e con caratteri potenzialmente distruttivi. È di questo periodo la costruzione di un consenso costruito sul debito pubblico in espansione, una imprenditoria privata protetta dallo stato, una competitività internazionale raggiunta non con innovazione e efficienza bensì con lavoro nero ed evasione fiscale. Una pratica che anche culturalmente – per la subdola considerazione positiva insita nella trasgressione delle regole condivise a danno dello stato – produrrà effetti assolutamente deleteri. 

Capitolo 5 – Il riflusso (1980-1991) 

La cultura

Con il rapimento di Aldo Moro per opera delle Brigate Rosse, e il ritrovamento del corpo il 7 maggio 1978, si chiude una parte di storia d’Italia. Nello stesso periodo la Rizzoli faceva girare tra i quadri dirigenti delle testate giornalistiche del gruppo un documento di indirizzo per il taglio da dare per il futuro: meno politica e più privato. Spazio ai consumi, al gossip, al disimpegno; la gente è stanca di ideologie e conflitti sociali. Avevano capito tutto!

Sono i prodromi di quello che saranno gli anni Ottanta: edonismo, disimpegno, opulenza artificiosa, populismo antistato. Non a caso il 1978 è l’anno del film “La febbre del sabato sera” e dell’esplosione del fenomeno della disco-music.

Dopo quindici anni di forti passioni politiche, il clima si stempera nel giro di soli due-tre anni.

La stanchezza per l’impegno politico senza sbocco e gli effetti del terrorismo portarono all’esaurirsi del movimento. In breve l’Italia abbandona le tensioni rivolte alle grandi tematiche politiche e abbraccia con entusiasmo una nuova visione politica indotta in parte dal neoliberismo emergente nei paesi anglosassoni, in parte alle spinte prodotte dalle novità di costume legate al secondo miracolo economico (radio e Tv commerciali, pubblicità, enfasi per vestiti firmati, vacanze, estetica). Si afferma una opulenza artificiosa basata su un individualismo spinto, su un aumento dei guadagni privati (spesso grazie all’evasione fiscale incredibilmente tollerata), l’espansione di pratiche di corruzione, intrecci dell’imprenditoria emergente con la criminalità organizzata ormai inserita nei circuiti internazionali della finanza. Emerge con forza una società “anti-stato”.

Una connotazione già presente, più forte in Italia che altrove, e che proprio in questi anni – in coincidenza con la diffusione della mentalità del disimpegno e dell’ostentazione dei consumi – conosce un suo decisivo salto di qualità. In questo contesto la forza della Sinistra in Italia collassa. Solamente la eccezionale organizzazione del partito, del sindacato, delle cooperative e delle associazioni impedisce un crollo verticale, così come avvenuto in altri paesi.

L’elemento che più colpisce dei primi anni Ottanta è la mutazione culturale. Ne è un caso emblematico la “marcia dei quarantamila” alla Fiat di Torino: impiegati e quadri manifestano contro lo stato di agitazione e occupazione promosso dagli operai e appoggiato da Sindacati e PCI.

Altro segno del cambiamento è la vittoria dei no al referendum contro l’abolizione della scala mobile, stabilita da Craxi da pochi mesi alla guida del governo (Coalizione Dc-Psi-Pli-Pri-Psdi). La scala mobile era lo strumento per adeguare automaticamente i salari sulla base dell’inflazione. Considerato un freno allo sviluppo, per l’effetto di aumento insostenibile del costo della manodopera, il provvedimento fu avversato dal Pci e dai sindacati. Con il 54.3% dei no, nel giugno 1985, fu certificato definitivamente l’addio al mondo del movimento operaio e studentesco.

Secondo molti storici i problemi attuali derivano da una trasformazione di grande portata non governata. Vediamo quali sono i più evidenti fattori di novità.

La società

La forza della classe operaia (250 mila operai solo a Milano) ha costituito l’asse portante della mobilitazione degli anni Settanta. Processi di de-industrializzazione e decentramento del lavoro, già avviati dalla metà degli anni ’70 (l’inversione di tendenza per gli addetti all’industria è il 1974, anno in cui il numero complessivo anziché aumentare diminuisce) assume negli ’80 numeri molto importanti. Da allora a crescere è il settore terziario, facendo anche dell’Italia un paese di servizi. Un problema per partiti di tradizione marxista e per i sindacati poiché il loro riferimento era sempre stato un sistema di produzione ad alta concentrazione di manodopera, con mansioni simili e sostanzialmente basato sulla mobilitazione maschile. La dimensione domestica della società e la capacità attrattiva del consumismo non sono mai entrati nell’agenda della sinistra. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer in una straordinaria e visionaria intervista lanciò la linea dell’austerità, per contrastare gli effetti perversi del consumismo. Era una prospettiva suggestiva – specialmente se vista dagli anni Duemila (tematiche in agenda di tutti i movimenti mondiali) – ma inadeguata per l’epoca: la visione della modernità come decadenza e catastrofe prevalse sugli auspici di sviluppo sostenibile e solidale; il Pci apparve scollegato dall’attualità e rivolto al passato, a schemi ormai logorati dal tempo. Non furono colti – nella sinistra italiana – gli aspetti positivi del “nuovo mondo” ovvero l’aumento della possibilità di scelta, le nuove opportunità di libertà (anche di genere) e di privacy.

Da quel momento la sinistra sarà impegnata in una lunga battaglia di retroguardia; i movimenti pressoché assenti; gli attori istituzionali impegnati soprattutto a salvare il salvabile (in alcuni casi semplicemente il proprio posto di lavoro). Anche la cultura cattolica fu investita da un processo di graduale ripiegamento: proprio come aveva predetto Pasolini il secolare braccio di ferro tra progressisti laici e clericali cattolici si è risolto nell’affermazione della società del consumo e di una falsa tolleranza edonistica.

Ad imporsi culturalmente fu dunque la destra – una destra moderna dai tratti apparentemente apolitici – che spadroneggiò, imponendo ovunque la sua cultura del consumo, dell’apparenza, dell’affermazione di sé nei modelli iper-individualistici tipici della metà degli anni ‘80.[3] 

La politica

Conclusa tragicamente l’esperienza del Compromesso Storico, la barra politica torna nelle mani dell’asse Dc-Psi sostenuto alternativamente o contemporaneamente da partiti minori di centro: Pri, Pli, Psdi. La stagione delle riforme – per quanto disarticolate – fu seguita da una stagione di assestamento, giocato soprattutto sul fronte della distribuzione delle risorse. La “partitocrazia” come occupazione degli spazi pubblici da parte dei partiti politici assume contorni patologici negli anni ’80. Incapaci di guidare transizioni politiche di spessore riformatore e di trasmettere prospettive ideali tali da coinvolgere strati consistenti di popolazione, i partiti entrano in tutti i cagli dello stato, dalle Asl alla Rai, dalle ferrovie alle autostrade, dai ministeri alla scuola ecc. Distribuire posti di lavoro, favori, appalti pubblici, compartecipazioni … un affarismo che non si fa remore all’utilizzo di qualunque mezzo per raggiungere il fine dell’arricchimento, e trasmette – orgoglioso – questo principio ai cittadini.

L’esplosione del debito pubblico, ancora oggi snodo drammatico della crisi italiana, deve a questi anni di arricchimenti facile la sua principale ragione d’essere. Principalmente i fattori che hanno fatto esplodere il debito sono due:

1.      Spese per consenso elettorale: tangenti, costi politica, assistenzialismo, assunzioni dipendenti pubblici.

2.      Prelievo fiscale debole: favorita l’evasione e, indirettamente, le attività della criminalità organizzata.

Gli anni ’80 conoscono due congiunture internazionali molto favorevoli: il biennio ’85-’86 e il ’90-’91. Ancora una volta c’è l’occasione per utilizzare la crescita economica per distribuire il benessere, porre basi solide allo stato con riforme strutturali necessarie e contrastare l’aumento del debito (nel 1989 era ancora l’89% del Pil). Ma una politica debole – senza idee e senza ideali – pensa solo al consenso. Craxi non ha una strategia per l’Italia, non fa riforme. Ci sono tentativi sporadici, ma mai un piano organico.

Raggiunge vertici insostenibili la pratica delle tangenti, che diviene un fattore integrante delle relazioni tra politica ed economia; un sistema organizzato tra imprenditori e politici.

Le pratiche illegali, universalmente conosciute seppur non dimostrate, sono sostenute pubblicamente tramite la retorica della realpolitik, di un cinismo pratico atto allo sviluppo e alla crescita. La partitocrazia invade tutti gli spazi, nasce la lottizzazione (spartizione equa e calibrata dei posti di lavoro per nomina partitica). La questione morale, sollevata da Enrico Berlinguer in una celebre intervista a Eugenio Scalfari, resta anch’essa una battaglia di retroguardia per ingenui sognatori. La corruzione è l’olio per far girare il motore della crescita. Un aspetto questo che apparirà a distanza di anni una vera e propria catastrofe: l’etica dello spazio pubblico declina in tutte le forme e la sua saldatura al tradizionale protezionismo dello stato produce una schizofrenia originalissima per cui il massimo dell’individualismo si unisce al massimo della protezione (nei paesi anglosassoni il rischio fa parte della cultura imprenditoriale); “una società della bisaccia – scrive Guido Crainz – della borsa a due tasche, tutt’e due comunque piene”.Una sorta di condivisione tra classe dirigente e popolazione verso pratiche di comportamento che mettono da parte l’etica pubblica ed esaltano il perseguimento del benessere materiale privato, con qualunque fine. Parte di questa cultura è la dura campagna stampa di delegittimazione della politica nel suo complesso. Ancora una volta l’assunzione di responsabilità è stata aggirata con una generica e superficiale vulgata antipartitica.Il ruolo delle televisioni commerciali nel costruire un immaginario collettivo nuovo, sempre più sbilanciato verso i valori dell’apparenza, dei soldi, del gossip, del divertimento, non è da sottovalutare. 

Capitolo 6 – Crollo della prima repubblica e risanamento dei conti pubblici (1992-94)

All’inizio degli anni ’90, anziché l’auspicata crescita economica indotta dagli effetti della caduta del muro di Berlino, arriva la grande crisi. Tutto sembrava immobile. Il 17 novembre 1991 il ministro Gava (DC) disse: “ora che è crollato il muro di Berlino inizia la nostra età dell’oro”. L’accordo informale tra i leader politici Craxi-Andreotti-Forlani conferma un’alleanza Dc-Psi per altri cinque anni di governo. A febbraio 1992 crolla tutto.

L’indagine del Pm di Milano Antonio di Pietro arresta, in flagranza di reato, il socialista Mario Chiesa e dà inizio ad una lunga stagione di inchieste giudiziarie orientate a scoprire l’illecito uso di denaro nei rapporti tra imprenditori e politici. Nel giro di qualche mese tutti i più importanti politici italiani della maggioranza sono coinvolti nell’inchiesta nota come “Tangentopoli”.

Gli anni ’92-’94 rappresentano l’ultima stagione di grandi speranze e oggettive possibilità di cambiamento del paese. L’ultima delle occasioni mancate, dopo la ricostruzione del dopoguerra, i governi di centro-sinistra dei primi ’60, il compromesso storico dei ’70.

La crisi

La crisi ha tante sfaccettature.

1.      Questione morale. Il palazzo di giustizia di Milano “processa” l’intera classe politica del paese; le élite imprenditoriali. In un certo senso il sistema di sviluppo (basato su illegalità, abuso di potere e accaparramento delle risorse pubbliche).

2.      L’economia. La prospettiva di entrare nell’Unione Europea impone una revisione della strategia finanziaria seguita negli anni ’80. Impossibile continuare a sostenere l’economia con il debito pubblico, occorrono dure manovre di aggiustamento. I mercati internazionali minacciano importanti speculazioni finanziarie.

3.      Nel Nord avanza un movimento indipendentista sostenuto dai tanti piccoli imprenditori che esprimono il loro disprezzo per i partiti politici e il sistema costruito intorno alla Dc.

4.      Palermo. L’azione di alcuni magistrati coraggiosi, riuniti intorno al pool antimafia, mettono in grande difficoltà Cosa Nostra e stimolano una nuova società civile capace di contrastare la mafia.

Quali i motivi della crisi?

1.      Crollo del muro di Berlino. Gli elettori che votavano Dc per paura della vittoria del comunismo, adesso sono liberi di scegliere.

2.      Trattato di Maastricht. È il panico finanziario del 1991. L’Italia non ha i requisiti minimi per far parte del club dell’Europa unita. Il debito pubblico, indicato nel 60% del Pil, era in Italia nel 1991 al 103%. Il disavanzo pubblico, fissato al 4%, correva intorno al 9%. L’inflazione corrente non doveva superare il 3.5% mentre il dato sfiorava il 7%.

I nodi dell’allegra politica degli anni Ottanta vengono al pettine; era davvero impossibile proseguire nella strategia politica del CAF (gestione del consenso tramite distribuzione di risorse pubbliche). In una drammatica notte Giuliano Amato decide l’uscita dell’Italia dallo Sme (il sistema monetario europeo) svalutando la moneta e bloccando – anche per responsabilità della Gran Bretagna – l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht.

Insieme a questi fattori esterni della crisi, ci sono degli elementi interni che hanno contribuito al crollo del sistema dei partiti dei primi cinquanta anni di Repubblica. Eccoli in breve:

–          La moralità ufficiale. La Repubblica è nata dall’esperienza della Resistenza italiana, sulle spalle di personalità di grande spessore morale e di riconosciuto riferimento istituzionale – come Sandro Pertini, Norberto Bobbio, Vittorio Foà, Garrone ecc. – per valori condivisi di giustizia sociale e etica pubblica. Un valore importante, che manca ad esempio a paesi come il Giappone e la Germania.

–          Magistratura indipendente. L’Italia è uno dei paesi che ha applicato meglio il principio di divisione dei poteri. Memori dell’invasione di campo del regime fascista i costituenti stabilirono una perfetta indipendenza tra potere giudiziario e potere politico.

–          Referendum per la preferenza unica. Nel 1991 gli italiani sono chiamati ad esprimersi su un apparente dettaglio amministrativo: il numero delle preferenze da attribuire nelle schede elettorali delle elezioni politiche. Sorprendentemente, anche a causa dell’invito ad “andare al mare”, vincono i si: un messaggio chiaro contro un meccanismo di controllo del voto clientelare nel Meridione d’Italia.

–          Il fenomeno Lega Nord. Il piccolo partito autonomista di Umberto Bossi conosce, dopo la caduta del muro, un exploit imprevedibile nelle preferenze in tutto il Nord Italia. Sono voti sottratti in gran parte ai partiti di governo e causano senz’altro un duro colpo alla partitocrazia. Introducono elementi nuovi, come il dibattito sul federalismo e la polemica contro le spese eccessive della politica di Roma.

–          Gli attentati contro i giudici antimafia Falcone e Borsellino suscitano grande scalpore e muovono un vasto movimento antimafia nella società civile. È anche un momento di aggregazione e di rilancio per una politica nuova, finalmente trasparente e lontana dalle trame illecite proliferate all’ombra della Dc di Andreotti e Salvo Lima. I successi elettorali alle amministrative del 1993 aprono scenari nuovi per il paese. La situazione è fluida, si succedono i governi tecnici di Giuliano Amato e dopo le elezioni che sanciranno la perdita della minoranza del Pentapartito, di Carlo Azeglio Ciampi. In questi due anni viene portata avanti una durissima fase di aggiustamento dei conti pubblici con finanziarie mai viste (basate in gran parte su un aumento consistente delle imposte).I partiti della maggioranza sono discreditati dai processi – peraltro trasmessi in Tv con effetti emotivi esaltati – e la coalizione di sinistra sembrava prossima alla vittoria. In questo clima scoppiano le bombe della mafia a Roma, Firenze e Milano. E in questo clima si va a nuove elezioni, indette per il marzo 1994.Il colpo di scena (di una decisione risalente almeno all’autunno) avviene nel gennaio ’94. L’imprenditore Silvio Berlusconi – amico personale di Bettino Craxi e grande beneficiario della sua politica –  annuncia in un celebre videomessaggio la sua “discesa in campo” con una formazione politica tutta nuova, collocabile nel centrodestra, e garante dei valori fino a quel momento rivestiti dai partiti riuniti intorno alla DC. Berlusconi riesce con un’abile escamotage ad unire i voti di Alleanza Nazionale e della Lega Nord, andando a costituire un nuovo blocco di potere molto più a destra del vecchio Pentapartito, incline sia alla demagogia razzista della Lega Nord che alla riabilitazione della matrice fascista avanzata sottotraccia da Alleanza Nazionale.

Insomma ancora una volta il paese non dà continuità ad un’azione di profondo rinnovamento che sembrava sul punto di nascere. Dopo il centro-sinistra degli anni ’60; i movimenti sociali degli anni ’70, è la rivolta civile – promossa dalla magistratura – degli anni ’90 a fallire la grande occasione di risolvere i problemi strutturali del paese. I cittadini anziché fare i conti (anche) con la propria responsabilità hanno scelto la strada dell’autoassoluzione; il paese ha rinunciato dell’occasione di fare i conti con i nodi storici e ha continuato a “pensarsi solo come vittima”. In un certo senso incolpando la “casta” dei politici ha assolto il sistema. E d’altra parte il discorso di Craxi alla Camera del luglio 1992 meglio di ogni altra considerazione espone la debolezza morale dell’intera classe dirigente[4].

In una situazione fluida, pericolosa ma allo stesso tempo aperta a trasformazioni importanti, tra crisi economica, lotta alla mafia, delegittimazione del parlamento i governi tecnici di Amato e Ciampi (sostenuti da una maggioranza trasversale; pentapartito con astensione del Pds e di altri gruppi minori) riescono brillantemente risanare i conti pubblici.Non riescono però in quella che appare sempre di più una missione impossibile per l’Italia: introdurre delle riforme strutturali in direzione di trasparenza, equità, legalità ed efficienza. 

Capitolo 7 – Il berlusconismo (1994-?)

Le elezioni del 27 e 28 marzo per eleggere la XII legislatura vengono vinte dall’imprenditore Silvio Berlusconi, capace di riunire intorno alla sua figura una coalizione eterogenea composta oltre dal suo partito personale denominato Forza Italia (e presentato ufficialmente solo pochi mesi prima in un celebre videomessaggio), dalla Lega Nord e da Alleanza Nazionale (evoluzione del partito postfascista del Msi).

Perché Berlusconi vince le elezioni?

Politologi e sociologici si sono interrogati a lungo sulla questione arrivando a poche evidenti conclusioni:

a.       Il vuoto creato dalla scomparsa della Dc e del Psi era a disposizione. Un bacino molto ampio di elettori non avrebbe mai votato per la coalizione di centrosinistra, né per le nuove formazioni di destra.

b.      Berlusconi era proprietario di tre televisioni nazionali su sei, oltre a un buon numero di giornali e riviste (Il Giornale, Panorama, Tv Sorrisi e Canzoni ecc.) In assenza di normative la propaganda politica è stata martellante come una campagna pubblicitaria.

c.       Berlusconi si è mostrato in sintonia con i tempi: ha esaltato, e non denigrato, il mondo dei consumi. La sua figura è quasi un epifenomeno della modernità consumistica, individualistica e antistatale. La sua campagna elettorale, a differenza dei responsabili sacrifici chiesti dalla “gioiosa macchina da guerra” riunita intorno al Pds (ex Pci) di Achille Occhetto, fu tutta incentrata sul “sogno” di un nuovo miracolo economico. Epico ed emblematico lo slogan più utilizzato nei mega manifesti 6×3 (metri) di Silvio Berlusconi sorridente, con cui fu affissa l’intera Italia: “Meno tasse per tutti”.

d.      Sfrutta il “cambiamento antropologico” che la cultura della televisione commerciale ha definitivamente compiuto nella maggioranza degli italiani. In un certo senso raccoglie i frutti gettati nei quindici anni precedenti; prima le sue televisioni hanno disegnato un mondo fittizio a-politico incentrato su donne bellissime e ammiccanti, calcio e sport in genere, spettacoli, quiz e notizie di gossip; poi ha promesso “quel mondo” agli italiani: senza problemi di disoccupazione (un milione di posti di lavoro), di stipendio (meno tasse per tutti), di insicurezza (meno criminalità, specialmente quella commessa da stranieri). Il successo del Polo della Libertà porta ad una novità straordinaria nel panorama politico. Sia Lega, che An che FI sono privi di tradizione democratica e non hanno – a differenza di tutti i partiti della cosiddetta I repubblica – radici nella carta costituzionale. I valori veicolati da questo nuovo soggetto politico sono opposti a quelli su cui è fondato lo stato democratico: non è il bene pubblico ad avere la priorità sull’interesse privato, ma esattamente il contrario. Una pratica che segnerà permanente l’età del berlusconismo, indipendentemente dalla presenza o meno del presidente di Mediaset, Mondadori, Publitalia, Mediolanum e altre decine di aziende, al vertice del governo.

Eppure a dicembre il primo governo Berlusconi era già caduto. Quasi tutti gli analisti, i giornalisti, i politici dello schieramento opposto decretano la fine del “sogno berlusconiano”.

Lamberto Dini, ministro (contestatissimo) del governo Berlusconi guida un governo di transizione fino alle elezioni del 1996. Mantenendo le aspettative l’ex dirigente dell’Iri e professore ordinario a Bologna, Romano Prodi vince le elezioni alla testa di un’ampia coalizione di centro-sinistra.

In teoria l’Ulivo avrebbe dovuto fare tutte quelle riforme rimandate da decenni, e inserire anche le acclamate regole di antitrust e conflitto di interessi. Due temi tabù per il centrodestra monopolizzato dalle aziende di Silvio Berlusconi, e incredibilmente accantonate anche dal governo Prodi.

La necessità del risanamento economico in vista del varo dell’euro assorbì ancora una volta l’intera riserva politica del governo. Rimasero sul terreno le riforme di sistema.

Fu presentata una importante riforma della scuola e università, che mise mano finalmente (anche se non mancarono dure critiche) al sistema scolastico; fu varato un importante piano anti-evasione con annesso aumento della tassazione (anche in questo caso il ministro delle finanze Vincenzo Visco subì durissime critiche); il ministro degli interni Giorgio Napolitano propose degli importanti aggiustamenti nel settore della polizia e dei servizi; Rosy Bindi avviò un riordino del sistema sanitario assolutamente necessario visto il livello di spreco e di inefficienza nel settore; Bassanini promosse una semplificazione della burocrazia italiana volta a superare uno dei problemi strutturali dell’Italia. Ma molto rimase da fare. E alla fine anche l’esperienza del centrosinistra degli anni Novanta può essere archiviato come una mancata svolta per il paese.

L’economia non trovò un vero rilancio. La riforma del fisco non riuscì a liberare risorse nelle tasche della classe media che non avvertì segnali in direzione di maggiore equità fiscale. La liberalizzazione delle professioni non furono nemmeno tentate. Le istituzioni anziché sottoposte a nuove norme di trasparenza, furono dotate di maggiori spazi di autonomia alimentando una pratica di sub-appalti e concessioni tutt’altro che trasparenti ed efficaci. La valorizzazione del merito nell’accesso ai posti pubblici e ai concorsi statali e universitari non venne mai affrontata; più in generale non fu posto il problema di meccanismi utili alla promozione dell’etica pubblica e al contrasto della pratica illegale. La pressione internazionale in direzione delle privatizzazioni e della deregolamentazione del mercato del lavoro spinse il governo Prodi – e i successivi D’Alema e Amato – ad una serie di interventi in campo economico contigui a quelli di un qualunque governo di centro-destra europeo: nuova legislazione molto favorevole a contratti “precari” o “flessibili” (come il contratto co.co.co. o il lavoro interinale); svendita di patrimoni pubblici a favore di affaristi privati con conseguente espulsione di migliaia di lavoratori (completamento di quanto fatto nell’emergenza del ’92-‘93); meccanismi di privatizzazione dei servizi pubblici come le mense comunali, il servizio idrico pubblico, i trasporti pubblici ecc. ecc.

Insomma la scossa tanto attesa non c’è stata. Il tempo è stato davvero poco, e forse nell’arco dell’intera legislatura Prodi avrebbe messo mano anche ad altri settori e avrebbe corretto le riforme zoppicanti; ma nel 1998 a fronte di una discontinuità non marcata e forse per ragioni di visibilità partitica, Rifondazione Comunista guidata dal carismatico segretario Fausto Bertinotti, fa cadere il governo Prodi. La coalizione si allarga a personaggi legati a doppio filo con il reticolo di pratiche e interessi (leciti e illeciti) della I repubblica, come Cossiga e Mastella, rinunciando così alla possibilità di un ampio e profondo intervento di riforma.

I successivi governi guidati da D’Alema e Amato non andarono oltre la dignitosa amministrazione. L’introduzione della parziale liberalizzazione dei contratti di lavoro, varata ufficialmente per contrastare il lavoro nero e andare incontro alle esigenze di un moderno mercato del lavoro decisamente più flessibile, si risolse in un “via libera” a meccanismi di precarizzazione, anche a causa della mancata applicazione di compensazioni a favore del lavoratore.

In un quadro di propaganda politica quotidiana alimentata dalle televisioni di Mediaset e dagli altri suoi mezzi di informazione le elezioni del 2001 ricomposero quella sintonia tra cittadini e governo rappresentata dal populismo berlusconiano. Grazie anche a una vergognosa campagna di criminalizzazione contro gli immigrati portata avanti dalla Lega, da An e dai media berlusconiani (e non solo) il centro-destra si impose con una maggioranza schiacciante.

Il secondo governo Berlusconi traccia definitivamente i caratteri della nuova era:

–          guerra alla magistratura (ne viene contestata l’indipendenza dal potere politico)

–          tagli alle spese sociali come la sanità e l’istruzione

–          controllo della Rai e diktat di interdizione a giornalisti o artisti non graditi al governo

–          condoni edilizi e altri provvedimenti, come l’abolizione del reato di falso in bilancio, di fatto favorevoli a evasori, truffatori, criminali. Il quinquennio è dominato da un rallentamento dell’economia mondiale e dalla guerra in Iraq. Problemi che portano la nuova coalizione di Prodi al successo nel 2006 (senza una vera maggioranza al Senato). Dato ancora per finito Berlusconi riprende le redini del paese già nel 2008, all’ennesima tornata di elezioni anticipate. E riprende da dove aveva lasciato: dalla guerra alla magistratura e dalla difesa del suo patrimonio. 

Appendice

(dal convegno “Società e stato nell’era del berlusconismo” Firenze 15-17 ottobre 2010 Nella teoria proposta da Ralf Dahrendorf nel 1955 le società per garantire una alta qualità di vita dei suoi appartenenti devono avere tre elementi:1.      benessere economico2.      coesione sociale3.      libertà politica

Tenere presente questi parametri aiuta a valutare la dimensione di alcune esperienze politiche e anche la fondatezza di certe letture politiche o giornalistiche.(…) Cosa fa Berlusconi in questo quadro? Non bisogna attribuirgli responsabilità che non sono sue:passività televisivachiusura individualistaattenzione maniacale ai consumi privati

Non sono modelli di comportamento derivati dal berlusconismo. È piuttosto una tendenza in atto dagli anni ’50 – ’60 e amplificata dal modello neoliberista imposto al mondo a partire dagli anni ’80 dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Qual è allora la particolarità del caso italiano?1.      Uso particolare che ha fatto del degrado democratico. Nel 1984 ha realizzato un monopolio della televisione privata nazionale grazie al non controllo di Autority e istituzioni politiche. È un caso unico al mondo. Inoltre ha fatto un uso politico intenso dei programmi televisivi, tanto da indurre il parlamento a varare una assurda legge di regolamentazione della propaganda elettorale detta “par condicio”.

2.      Considerazione dello stato e della sfera pubblica.

Tutte le destre europee e democratiche rispettano lo stato e la sfera pubblica. Per Berlusconi non esistono zone franche e regole pubbliche al di sopra degli interessi privati: tutto è consumo, tutto è privatizzabile, tutto si può comprare e usare a proprio piacimento.

3.      Esplicito sostegno all’imprenditoria autonoma e aggressione al “ceto medio riflessivo”.[5]

La serie di leggi anti-stato come i condoni, le norme che indeboliscono i vincoli sulla sicurezza sul lavoro, l’abolizione del reato di falso in bilancio, il rientro dei capitali nascosti all’estero a una tassazione ridicola (5%), agevolazioni fiscali di vario genere … colgono in pieno il favore di categorie generalmente ostili all’invadenza statale.

È altrettanto esplicito l’attacco alla scuola, alla magistratura, alle fondazioni culturali; una crisi del settore indotta dalle politiche del governo prima ancora che dalla crisi economica mondiale.

4.      Viene spaccato il corpo sociale del paese. La retorica del “con me o contro di me” trasforma il paese e ogni questione nazionale in un gigantesco plebiscito a favore o contro Berlusconi. Non c’è problematica che non tocchi interessi privati del presidente del consiglio e non c’è problema privato del presidente che non si imponga come questione pubblica nazionale: l’Italia nel 150° della sua nascita, nel pieno della più grave crisi economica dal 1933, appare come sprofondata in una palude – economica, culturale, sociale e politica – da cui niente e nessuno sembra in grado di farla uscire. 

[1] La rivoluzione culturale ha conosciuto in Europa una fortuna del tutto immeritata. Anziché come un dittatore in preda ormai a un delirio di onnipotenza, Mao fu interpretato come un grande condottiero sulla via della giustizia sociale. La rivoluzione culturale cinese è una pagina nera nella storia della Cina e del socialismo in generale.

[2] Per le considerazioni degli Stati Uniti in merito alla politica italiana degli anni Settanta, si veda Umberto Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington, 2009.

[3] Una buona ricostruzione delle dinamiche sociologiche dell’affermazione di questo modello culturale (e una spiegazione del declino inarrestabile della sinistra politica in Italia) si trova in “Il mostro mite” di Raffaele Simone, Laterza, 2008.

[4] “un documento essenziale per cogliere l’intrico di illegalità che era cresciuto negli anni Ottanta. Craxi conferma la diffusione della corruzione ma considera al tempo stesso la normale via giudiziaria quasi un atto eversivo, un attentato allo stato democratico.” Crainz, Autobiografia di una repubblica, p. 196.

[5] Secondo una fortunata definizione di Paul Ginsborg il ceto medio riflessivo è quell’insieme di cittadini occupati nel terzo settore, nella scuola, nel mondo dell’informazione e della cultura, nell’assistenza sociale o più genericamente come impiegati di concetti in aziende pubbliche o private.