L’Italia, la repubblica e Machiavelli
La storia dell’Italia repubblicana ha un grande padre ispiratore, conosciuto ai più per una clamorosa svista interpretativa: Niccolò Machiavelli.
Purtroppo quello che è risaputo, da chi – in sostanza – non l’ha letto, sono due o tre luoghi comuni che stravolgono e ribaltano il senso stesso del messaggio di Machiavelli. “Il fine giustifica i mezzi” è la frase attribuita allo statista toscano, ma da lui mai scritta né pronunciata; così come assolutamente fuorviante è l’idea che l’intrallazzo al limite della legalità sia la lezione che gli italiani hanno imparato dal fondatore della politica moderna; non per nulla machiavellismo nella definizione presentata dal dizionario del Corriere.it ci dice:
“Orientamento ideologico e politico legato a un’interpretazione diffusa delle teorie di N. Machiavelli secondo cui la forza e l’astuzia sono la base della politica; estens. cinismo opportunista; utilitarismo, spec. in campo politico · 2 fig. Azione o comportamento subdolo e astuto”
Ma siccome Machiavelli ha fatto politica, potrebbe essere utile guardare come effettivamente svolgeva il suo mestiere di politico.
Nell’anno 1512 cadeva, ad opera dell’esercito spagnolo, la repubblica di Firenze. La città tornava nelle mani dei Medici. Segretario generale con funzioni di diplomatico era Niccolò Machiavelli. Il 1513 segna il consolidamento del potere mediceo e la fine della libertà repubblicana. Machiavelli fu estromesso dal governo della città e – in seguito ad accuse di complotto (false) – obbligato all’esilio in San Casciano. Qui, proprio nel 1513, furono progettati e iniziati i suoi scritti più importanti: il Principe, I Discorsi sopra la I decade di Tito Livio e gli Iscritti Fiorentini. Le tre opere hanno una ragione comune: Machiavelli ci dice come si può far morire una repubblica (mantenendone la forma esteriore o istituzionale) e come far rinascere e rafforzare l’ideale repubblicano.
Una concezione che nasce da un punto controverso: ovvero se il ritorno dei Medici abbia segnato davvero un cambiamento (da libertà a tirannia) oppure se non sia stato altro che un passaggio di potere tra differenti oligarchie. Molti celebri storici, da Guicciardini a Vettori, sostengono che il regime repubblicano non aveva molto a che fare con la vera libertà e che in sostanza era solo parvenza: tra governo popolare e mediceo la differenza è solo apparenza! Posizione di eccezionale interesse anche per noi contemporanei, poiché c’è tutto un filone di storici e scienziati politici – nonché giornalisti – che hanno attraversato le varie epoche con questa teoria: “in realtà tra libertà e tirannide non c’è differenza!”
Però ci sono dei fatti. Nel nostro caso i fatti ci dicono che:
1. i Medici sono tornati con un colpo di stato e un’aggressione militare – per mano dell’esercito mercenario spagnolo, loro alleato – culminata nel sacco di Prato.
2. Vengono cacciati i dirigenti eletti da assemblee qualificate, sciolte le strutture del potere repubblicano, cambiato il sistema di governo.
3. Da quel momento la città sarà al servizio di una famiglia. D’altra parte lo stesso Guicciardini, simpatizzante mediceo, narra di come “con l’armi fu oppressa la libertà dei cittadini”.
Perché la repubblica fiorentina, benché non democratica secondo i nostri canoni, è diversa dal regime mediceo (che poi sarà Granducato di Toscana)?
a. fu abolito il consiglio grande.
b. tutte le magistrature, prima nominate dal consiglio grande, sono nominate dai Medici.
c. i funzionari potevano facilmente essere corrotti e comprati alla causa familiare.
d. la mentalità sotto la repubblica era quella dei cittadini che partecipano in qualche misura alla vita della città e dicono la loro sulle scelte. Con i Medici si afferma la mentalità e la cultura del cortigiano, cioè di colui che simula, che è re dell’apparire e dell’adulare solo per compiacere il “principe”.
Torniamo a Machiavelli
Nel 1512 i Medici lo sollevano dall’incarico e poi lo tormentano con una serie di misure vessatorie. Istituiscono addirittura una commissione per cercare reati finanziari commessi durante i molti anni di segretariato (in altre parole cercavano le prove di un qualche vantaggio privato dall’aver gestito somme ingenti di denaro pubblico)… ma non trovano nulla. Machiavelli infatti era di una integrità assoluta. Quando aveva a che fare con subordinati che non svolgevano onestamente il loro lavoro era severissimo (altro che “fine che giustifica i mezzi” invocato a sproposito dai molti politici corrotti dei tempi recenti!).
Viene “incastrato” da un elenco di nomi di possibili aderenti ad un complotto antimediceo. Lui è estraneo alla vicenda ma viene arrestato e sottoposto a tortura (i terribili strappi). Ancora nel Cinquecento la confessione estorta con la tortura – spesso erano confessioni fasulle dettate dal troppo dolore – valeva come prova. In ogni caso Machiavelli esce dai sotterranei del Bargello grazie all’intervento di Giuliano de’ Medici e alla comprovata innocenza.
La prigionia avviene tra il 1512 e il 1513. E’ libero ma costretto all’esilio. E qui studia i grandi classici latini e greci, e scrive. Scrive parole per far rinascere lo spirito repubblicano. Ma nello stesso tempo chiede ai Medici di essere ripreso a servizio. Oggi ci appare incomprensibile ma per l’epoca non lo era. Machiavelli viveva per servire la patria, e lavorare con i Medici era l’unico modo per farlo. Anche Michelangelo e Da Vinci lasciarono la città di Firenze non più repubblicana per andare a lavorare presso importanti corti signorili. Giudicare con i nostri parametri il comportamento di cinquecento anni fa può non essere la strada giusta per capire la storia!
Salvare Machiavelli dal machiavellismo
In tempi recenti politici che si credono furbi e mediocri studiosi hanno offerto un’idea distorta di Machiavelli, attingendo da una presunta ambiguità dei suoi scritti. Ma non c’è nessuna ambiguità: lui voleva una patria viva, grande e libera. Per questo era repubblicano e non mediceo.
Nel Principe tratta del sistema per consolidare nuovi principati: cioè quali comportamenti adottare per ottenere consenso e comandare un popolo privandolo della libertà. Ma è scritto come un’orazione e le regole dell’orazione sono che le cose importanti si dicono alla fine. In questo caso infatti abbiamo l’invocazione al salvatore: l’Italia necessita di un redentore che la salvi dai barbari.
Insomma, il Principe ci dice come si perde la libertà.
Nelle Istorie fiorentine Machiavelli ci spiega come il potere principesco corrompe la vita pubblica e sociale: i nuovi dirigenti si “comprano” i funzionari e le genti di rilevo della città. Il merito smette di essere una qualità per accedere alle alte cariche e rimane solo la “fedeltà”; con grande deperimento della dimensione pubblica.
Invece nei “Discorsi sopra la I decade di Tito Livio” si tratta di come di recuperare la libertà repubblicana. Non è solo questione di istituzioni, ma anche di comportamenti e di relazioni tra potere e cittadini.
“E facil cosa è conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione del vivere libero; perché si vede per esperienza, le cittadi non avere mai ampliato né di dominio né di ricchezza, se non mentre sono state in libertà. E veramente maravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza venne Atene per spazio di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima è a considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò da’ suoi Re. La ragione è facile a intendere; perché non il bene particulare, ma il bene comune è quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è osservato se non nelle republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce; e quantunque e’ torni in danno di questo o di quello privato, e’ sono tanti quegli per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione di quegli pochi che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove il più delle volte quello che fa per lui, offende la città; e quello che fa per la città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero, il manco male che ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere più in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro, che le tornano indietro. E se la sorte facesse che vi surgesse uno tiranno virtuoso il quale per animo e per virtù d’arme ampliasse il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna utilità a quella republica, ma a lui proprio: perché e’ non può onorare nessuno di quegli cittadini che siano valenti e buoni, che egli tiranneggia, non volendo avere sospetto di loro. (…) E chi volessi confermare questa opinione con infinite altre ragioni, legga Senofonte nel suo trattato che fa De Tyrannide.”
Discorsi, capitolo 2, Libro II.
La lezione di Machiavelli è stata preziosa per intellettuali e politici del Seicento e del Settecento: inglesi, olandesi, svizzeri e americani che hanno fondato e difeso istituzioni repubblicane (o equiparabili, nella filosofia politica). Ma anche in Italia qualcuno ha capito che proprio a Machiavelli bisogna guardare come simbolo della capacità di risorgere dall’oppressione e dalla corruzione. Questi qualcuno sono
- Francesco de Sanctis, che nel 1870 in occasione della presa di Roma annotò un commento entusiasta del passaggio storico, sancito da un “evviva l’Italia unita, evviva Machiavelli”;
- e Luigi Einaudi, che nel 1947 esortò la consulta per la pace a seguire l’esempio di Machiavelli. Ma non al Machiavelli studioso a San Casciano, bensì al Machiavelli politico: alla sua integrità morale, e alla sua fiducia nei cittadini e nel sistema repubblicano come antidoto al nazionalismo, al totalitarismo, al potere di uno o di pochi sui molti.
Con questo spirito gli italiani devono vivere il “nuovo inizio” da popolo libero.