Il ruolo dello stato era, ai primi dell’ottocento in via di definizione.
Secondo i primi liberali inglesi doveva essere come “un domatore del circo”, che sta fuori dallo spettacolo, sorveglia, ma non prende parte. Lo stato dirige in modo minimale quello che succede nella società. Questo almeno era l’obiettivo. Si crea una grossa differenza tra la realtà e l’illusione.
Karl Marx individua la divisione tra realtà e illusione molto bene nel testo “Questione ebraica” del 1844. In questo pamphlet si sostiene che nella società feudale la cosiddetta società civile e lo stato coincidevano.
Gli elementi della società civile (proprietà, lavoro, famiglia) erano elevati a momenti di vita statale (corporazione, signoria, villaggio). Non c’era una suddivisione netta tra momento privato e momento pubblico. La trasformazione borghese ha creato questa separazione.
I cittadini sono uguali di fronte allo stato e alla legge ma restano profondamente diversi nella società civile. L’uomo ha ora due esistenze: l’uomo politico e l’uomo economico. La rivoluzione borghese crea l’uguaglianza illusoria (politica) e la disuguaglianza reale (economica). Secondo Marx l’allineamento delle due uguaglianze è impossibile nella società capitalistica.
La questione del rapporto tra stato e società civile sarà al centro del dibattito politico per molto tempo. Vediamo alcune opinioni di “gente importante” del XIX secolo:
Secondo Thomas Paine (“Buonsenso” – 1776) lo stato doveva solo punire gli eccessi negativi commessi dall’uomo. Crede fermamente nelle capacità del libero mercato di rispondere alle richieste di felicità degli individui. “La società civile è prodotta dai nostri bisogni, e il governo dalla nostra malvagità”.
Emmanuel Joseph Siéyès
Vede nella borghesia la forza trainante della società e quello che più di ogni altra va lasciata libera di agire. Anche lui, come Paine, auspica uno stato con pochi poteri. Entrambi pensano che l’uomo sia portato per natura ad una competizione pacifica, alla cooperazione, alla solidarietà. Lo stato deve ricoprire esclusivamente il ruolo di controllore.
Di opinione completamente opposta le idee di grandi pensatori dell’Ottocento:
G. W. Friedrich Hegel (“Filosofia del diritto – 1820) sostiene che lo Stato rappresenta il punto più alto dell’uomo. La società civile non è altro che una giungla, dove la competizione esalta gli aspetti peggiori dell’uomo. E’ lo stato a limitare gli istinti biechi dell’uomo e a valorizzarne le virtù. La Prussia era per lui il riferimento concreto di uno stato forte e di una società civile limitata.
Alexis Tocqueville (“La democrazia in America” – 1840) espone una terza posizione, di grande attualità.
“Il tiranno maggiore – sostiene – può essere proprio lo stato democratico con troppa burocrazia e troppo controllo sulla società civile” – La legittimità guadagnata con l’elezione democratica rischia di divenire un pericoloso boomerang se il potere politico non viene controllato da una cittadinanza attiva e competente.
Come possibili rimedi individua la proliferazione delle associazioni di cittadini e l’esistenza di un esercito di leva. In generale è fondamentale il ruolo attivo della cittadinanza.
RIASSUNTO:
1 – Stato debole-società civile forte (Paine-Seyes)
2 – Stato forte-società civile debole (Hegel)
3 – Società civile attiva per evitare la dittatura dello stato democratico (Touqueville)
In particolare riguardo all’Italia è stato molto acceso il dibattito sui perché del mancato sviluppo in senso liberale dello stato postunitario. Antonio Gramsci attribuisce la responsabilità alla borghesia che ha trovato più comodo mantenere nel sud i vecchi rapporti di potere – clientelare e di favoritismi – facendo un compromesso con i grandi latifondisti meridionali. Il timido tentativo della destra storica fu accantonato definitivamente nel 1876 quando la sinistra borghese inaugurò il TRASFORMISMO abbandonando qualunque velleità riformista.
In Italia, anche nel dopoguerra, possiamo notare una strana convergenza anti-modernizzazione dell’apparato statale: da una parte la maggioranza di governo che perpetua la pratica trasformista sacrificando le riforme “liberali” alle pratiche di scambio elettorale; dall’altra una opposizione comunista e socialista (per gran parte del secolo) poco interessata al miglioramento del sistema (riforme) per sbandierare un possibile cambiamento radicale (rivoluzione).