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Nazione e nazionalismi

La disintegrazione della Jugoslavia

“La cosa che più mi turbava non era la mancanza di sicurezza individuale, il fatto che potessimo, come qualunque altro abitante di quel paese, morire improvvisamente a causa di una granata o di una pallottola di un cecchino, ma il fatto di assistere in diretta – e forse contribuire? – al crollo di tutti i valori difesi dalla nostra civiltà. I diritti dell’uomo non avevano più alcun senso. Potevi essere ucciso ad un posto di blocco soltanto perché il tuo nome sembrava musulmano. E la cosa peggiore è che il tipo che ti stava di fronte, quello che ti sparava era tale e quale a voi e a me.”

Jean-Selim Kanaan. La mia guerra all’indifferenza (2002)

L’integrità dello stato jugoslavo, garantito dal governo comunista di Josip Broz Tito, si sbriciola in modo sconcertante ai primi anni novanta. La morte del grande capo nel 1980 non intaccò il sistema di potere basato sul dominio del partito unico e dell’esercito ma anche su forme di decentramento per unità produttive e comunità nazionali. Le varie religioni [1] erano inquadrate in una sostanziale laicità istituzionale, che riconosceva in modo paritario le varie festività. In particolare la Bosnia-Erzegovina era la regione dove si era realizzata una vera e propria comunità multietnica, con tantissimi matrimoni misti e con una visione molto aperta e moderna dell’islam.

Una prima avvisaglia si ha nel 1981, quando la regione del Kosovo (80% di albanesi) vide delle sommesse di ragazzi che rivendicavano lo status di repubblica all’interno della Federazione. Fino al 1991 la Jugoslavia era uno stato federale di cui facevano parte, da nord a sud: Slovenia – Croazia – Serbia – BosniaErzegovina – Macedonia. Kosovo e Montenegro erano organi amministrativi autonomi all’interno della Repubblica di Serbia , la più grande e la più rappresentata negli organi federali tra le repubbliche.

La sommossa dei giovani kosovari è repressa con facilità. Il crollo avviene dopo la caduta del muro di Berlino e coincide con l’ascesa di Slobodan Milosevic ai vertici del partito comunista e dello stato. Le pressioni esterne per un’apertura indiscriminata ai mercati internazionali trova stato e popolo impreparati e innesca meccanismi centrifughi per cui le province più ricche e legate all’occidente (Slovenia e Croazia) sostengono una riforma istituzionale che trasformi la federazione in confederazione.

Quale fu la scintilla?

La guerra civile in Jugoslavia scoppia con la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991. Riconosciute da Germania e Unione Europea i nuovi stati sono aggrediti militarmente dall’esercito federale jugoslavo, in realtà divenuto esercito della repubblica serba, dando vita ad una guerra vera e propria. Il conflitto entra in una spirale tragica alimentandosi dei peggiori fantasmi della storia balcanica: tornano i miti di tutte le precedenti guerre, da quelle medievali a quelle della seconda guerra mondiale; vengono riscritti i libri di storia; reinventata la lingua: la propaganda nazionale diventa, insomma, un inno all’odio etnico. L’escalation del fanatismo panslavo induce la Bosnia a proclamare l’indipendenza (1992).

Il 6 aprile dello stesso anno inizia il cannoneggiamento di Sarajevo e l’assedio della capitale della Repubblica della Bosnia Erzegovina. Ufficialmente la guerra in Bosnia riguardava i serbo-bosniaci che avevano dichiarato una propria repubblica indipendente “Republika Srpska”: in realtà si trattava di un tentativo di conquista mano militare del territorio da parte dell’esercito di Serbia.

Il conflitto che ha disintegrato la federazione jugoslava rappresenta una specie di “buco nero” per la civiltà europea del dopoguerra. Non c’era infatti un esercito che perseguiva precisi obiettivi strategici, né – come succedeva in Somalia e Afganistan – bande di irregolari che si spartivano il controllo del territorio. In Bosnia agivano eserciti pressoché regolari con l’obiettivo di uccidere e far scappare le popolazioni di etnia rivale, di compiere cioè un genocidio . Tornarono i cetnici e gli ustascia, tornarono i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e le stragi. E divenne familiare il pericolo del cecchino: ovvero del militare che, nascosto dietro una finestra, spara ai civili inermi – meglio se donne e bambini – intenti ad attraversare la strada, fare la spesa, comprare il pane o riempire bottiglie d’acqua.

Inoltre bisogna aggiungere che la guerra assunse presto una forma di “tutti contro tutti”: Serbia contro Croazia e Bosnia; ma anche Bosnia contro Croazia poiché all’interno della Bosnia la minoranza croata aveva rivendicato l’annessione con lo stato-madre. La guerriglia era fatta casa per casa, villaggio per villaggio, dove ogni esercito che prevaleva provvedeva alla “pulizia etnica”: bruciava o confiscava le abitazioni, cacciava o uccideva le persone di etnia sbagliata.

Gli accordi di Dayton

Le Nazioni Unite gestivano l’assistenza umanitaria e molti contingenti internazionali agivano sul territorio per proteggere i progetti di assistenza. L’incapacità dei paesi di trovare una soluzione e di fare qualcosa segnò una sconfitta storica per la politica dell’Unione Europea.

Fu soltanto nel 1995, dopo 200 mila morti e molti milioni di profughi e rifugiati, che la guerra vide la sua fine con gli accordi di Dayton (Stati Uniti), che sancì l’indipendenza di tutte le repubbliche dell’ex Jugoslavia ma con una ridefinizione dei confini su basi strettamente etniche. La Bosnia Erzegovina mantenne la sua integrità.