La fine dell’Unione Sovietica non realizzò la promessa di facile e immediato arricchimento. La transizione al libero mercato fu sostituita da una ricetta di shock economico, con il passaggio repentino da un’economia statalizzata – a prezzi garantiti, lavoro assicurato e assistenza sociale – a un’economia del tutto liberalizzata. I prezzi schizzarono verso l’alto e la disoccupazione esplose. Nuovi ricchi, per effetto della spoliazione dei beni dello Stato, si confondevano ad approfittatori senza scrupoli spesso in stretta relazione con organizzazioni criminali. Quasi un quarto della popolazione andò sotto la soglia della povertà, mentre anche l’aspettativa di vita peggiorò considerevolmente.
La Russia di Eltsin aveva inoltre il problema delle nazionalità interne. Non solo l’Urss era uno stato federale con all’interno popoli e culture assai diverse, ma la stessa Russia era – come specifica il nome ufficiale – “Federazione russa”, uno Stato federale composto da ben 22 repubbliche. Alcune di queste, anche sulla base del principio dell’autodeterminazione dei popoli che aveva permesso la nascita della stessa Russia, proclamarono l’indipendenza.
In particolare la repubblica caucasica della Cecenia, a maggioranza islamica, portò alle estreme conseguenze lo scontro con la Russia, dando vita ad una terrificante guerra civile che si svolse a più riprese, tra il 1991 e il 2009, facendo oltre 80 mila morti. La ferocia del
conflitto è ben presente anche per una scia di attentanti sconvolgenti nel territorio russo: si ricordano per l’efferatezza l’attacco al teatro di Mosca del 2003 e l’irruzione e la presa in ostaggio di centinaia di bambini nella scuola primaria di Beslan (Ossezia del Nord, Caucaso) nel 2004. In entrambi i casi l’altissimo numero di morti è riconducibile alla volontà del presidente Vladimir Putin di non trattare e di dare un segnale di forza: l’irruzione delle truppe speciali portò alla morte di 170 persone nel teatro e 385 persone, di
cui 190 bambini, nella scuola. La presidenza di Eltsin è stata caratterizzata quindi da una grande debolezza sullo scenario internazionale, da una caduta verticale della ricchezza dello paese e da una sensazione di caos generalizzato. La libertà acquisita non aveva portato al miglioramento delle condizioni di vita. L’ascesa al potere del giovane ex agente del Kgb Vladimir Putin sfruttò tutte queste debolezze. Nominato presidente da Eltsin nel 1999 per motivi di salute, Putin impresse subito una svolta orientata al ristabilimento dell’ordine interno, e al rafforzamento dello Stato. Le imprese energetiche principali furono ri-nazionalizzate – talvolta con condanne agli oligarchi che avevano fatte fortune incredibili con la privatizzazione degli anni Novanta – e l’economia ebbe una lieve ripresa. Il restringimento delle libertà individuali procedeva parallelamente al nuovo ordine interno; la fine del caos dell’epoca di Eltsin garantì a Putin un vasto consenso: vinse nel 2000 e nel 2004;
dopodiché nominò un uomo di sua fiducia, Dimitri Medvedev, a succedergli come stabilito dalla costituzione russa (per andare lui a ricoprire la carica di Primo ministro). Ancora nel 2012 e nel 2016 Putin si presenta e vince le elezioni presidenziali. Nel giugno 2020, pur con l’epidemia di Coronavirus in corso, Putin fa svolgere un referendum costituzionale per togliere i vincoli di mandato per la carica presidenziale ed eliminare ogni ostacolo al suo potere perpetuo.
In generale il governo di Putin ha coniugato forza e abilità politica nello scenario internazionale con una certa efficacia sul piano economico interno. Nondimeno il paese è retrocesso sul piano delle libertà civili, sul diritto di opinione, sul piano insomma delle libertà democratiche. Se dal punto di vista economico la crescita si basa in buona parte sul settore energetico (petrolio e gas) è dal punto di vista geopolitico che la Russia riprende il suo ruolo, con un attivismo militare di tipo neo-imperiale.
Nel 2008 invade la Georgia, colpevole di un avvicinamento eccessivo agli Stati Uniti; nel 2014 rivendica e occupa la Crimea, penisola
storicamente appartenuta alla Russia (abitata in maggioranza da russi), in territorio ucraino dal 1954. A seguire, nel 2015, l’esercito russo sostiene la lotta separatista dei russi nella regione del Donbass, sempre in Ucraina, portando la tensione internazionale alle stelle nell’estate del 2014. Quando neppure la guerra contro Kiev – e la possibile reazione della Nato – erano da escludere, venne raggiunto un accordo formale tra Russia, Francia, Germania e Ucraina per un cessate il fuoco (in realtà mai del tutto realizzato). In seguito alla guerra contro l’Ucraina il paesi della UE e gli Usa hanno imposto una serie di sanzioni economiche contro la Russia – non per le forniture di gas e petrolio – e
hanno escluso il paese dai vertici internazionali denominati G8.
Altri fronti aperti hanno dato modo alla Russia di inserirsi ed allargare ulteriormente il peso della Federazione nello scacchiere internazionale, come ad esempio l’ingresso nella guerra civile in Siria e l’ingerenza nella guerra civile in territorio libico. Tra l’altro proprio in Siria l’armata rossa ha dato un colpo fondamentale alla sconfitta dello stato islamico dell’Isis e rimesso al comando dell’intero territorio il presidente, dittatore e alleato della Russia, Assad.
Alla fine del 2021 e nei primi mesi del 2022 la situazione in Ucraina conosce una drammatica recrudescenza, con minacce, esercitazioni militari e scenari sempre più allarmanti. All’acme della crisi il presidente Putin annuncia il riconoscimento unilaterale delle province del Donbass. Nello sconcerto del mondo la mattina del 24 febbraio truppe corazzate dell’esercito russo entrano in territorio ucraino per un’invasione a tutto campo facendo precipitare Kiev e milioni di abitanti nell’incubo di una guerra in casa.
Al momento della stesura di queste righe il conflitto è in corso con preoccupanti prospettive di escalation militare all’ombra di difficili incontri bilaterali per porre fine alla guerra.