Periodicamente torna fuori al questione dell’apologia del fascismo. Un aspetto che ha una contraddittorietà filosofica di fondo (negare la libertà a chi vuol negare la libertà?) che ha trovato comunque una qualche forma giuridica già a partire dal testo costituzionale – che è nella sua essenza antifascista – ed è stata strutturata dalla cosiddetta “Legge Scelba” .
Tra le molte questioni discusse e discutibili ce n’è una invece che non ha molto senso dal punto di vista storiografico, e che invece suscita grande interesse a livello di pubblica opinione. Ovvero l’antica questione sul perché apologia del fascismo sì e apologia del comunismo no!?
Per farsi un’idea autonoma bisognerebbe leggere molti testi riguardanti sia la storia del fascismo sia la storia del comunismo, ma nello specifico ce ne sono due molto indicativi e costruiti con un metodo valido, e su quelli si basa la prima parte di questa sezione: Viva Mussolini e Tutti gli uomini di Mussolini.
NOTA – COME SI RICONOSCE UN TESTO STORICO VALIDO? In genere la ricchezza delle note e la lunghezza della bibliografia sono criteri di serietà dello studio. Su fascismo e comunismo i testi mediocri, senza fondamento metodologico di ricerca e compilazione storica, sono davvero tanti.
Aram Mattioli (Viva Mussolini) è un autore svizzero che ha pubblicato in Svizzera questo studio nel 2010. È un ottimo quadro di quel complesso di dettagli di cultura e propaganda che hanno edulcorato l’immagine del duce e del ventennio. Un processo riabilitativo iniziato, per responsabilità varie dirette e indirette, già nel dopoguerra e giunto ai giorni d’oggi con rinnovato vigore.
La seconda vita di Mussolini si spiega con il fatto che in Italia, oggi, una fetta non irrilevante dell’opinione pubblica coltiva un’immagine del duce indulgente, tinta di un fascino segreto, che non sembra essere scalfita dalle conoscenze storiche derivanti dalle ricerche degli ultimi anni (*). Sebbene il clima politico instauratosi con Berlusconi l’abbia indubbiamente favorita, una simile indulgenza non è una invenzione della seconda repubblica. (…)
Dopo la caduta del fascismo, gli antifascisti di sinistra non riuscirono a smascherare in maniera efficace Mussolini, fautore di una dittatura nemica dell’uomo. Mussolini fu considerato a lungo una nullità politica. Dopo la fondazione della repubblica, il discorso della memoria lo liquidò come un buffone grottesco, un “Cesare di cartapesta” che non meritava ulteriori riflessioni, dato che gli italiani si erano liberati con una sollevazione popolare di quell’ “aspirante tiranno” e delle sue fantasticherie pseudoimperialiste. “Durante il primo decennio repubblicano”, ha affermato Sergio Luzzato non molto tempo fa, “la cultura antifascista ha preferito non indugiare sopra la “trista figura” di Mussolini. Così la cultura estranea ai valori della Resistenza ha avuto agio di svolgere quasi senza contraddittorio il proprio racconto della vita, della morte e dei miracoli del duce.” (Aram Mattioli, Viva Mussolini, p.112)
C’è anche un motivo più diretto e concreto. Ed è una ragione (che si collega al secondo prezioso libro), ovvero il mancato processo ai criminali di guerra italiani. “Alla costruzione di un’immagine edulcorata di Mussolini hanno contribuito anche la mancanza di un tribunale internazionale che giudicasse i suoi crimini di guerra e l’amnistia generale concessa troppo presto dal ministro della giustizia Palmiro Togliatti.”
Il processo di Normiberga non ha ripulito le istituzione della nuova Germania dai funzionari e comandanti nazisti, ma – specialmente nella Germania est – il processo di epurazione è stato piuttosto profondo. In Italia non c’è stato nulla di simile a Norimberga e oltretutto è stato il primo paese – tra quelli collaborazionisti – a decretare un’amnistia genereale.
Una mossa politica utile alla contingenza (per ragioni diverse sia alla DC sia al PCI), ma che ha lasciato strascichi drammatici nei decenni successivi. In pochi anni il personale statale in posti chiave – forze armate, servizi segreti, forze dell’ordine ecc. – si è svuotato di ex partigiani e si è riempito di ex fascisti. Alcuni di questi erano veri e propri “pezzi grossi” del regime; responsabili, in Africa o nei Balcani, di rappresaglie e omicidi accertati dal tribunale internazionale per crimini di guerra.
“Gli uomini di Mussolini” di Davide Conti svolge, a questo proposito, una accurata indagine sulle vite di alcuni gerarchi fascisti sfuggiti alla condanna e riabilitati nell’establishment della seconda repubblica. Nomi che ai più non dicono nulla – Ettore Messana, Giovanni Messe, Giuseppe Pièche, Taddeo Orlando e molti altri – ma che hanno ricoperto ruoli chiave negli anni che vanno dal ’46 ai ’70, incrociando molti degli episodi più inquietanti della nostra storia, da Portella della Ginestra alla strategia della tensione.
Scrisse uno dei principali storici della Resistenza Claudio Pavone:
“La fascistizzazione dell’apparato burocratico non fu dunque, com’è stato scritto “di parata” (…) Il fascismo, come forma storicamente sperimentata di potere borghese, non si esaurisce nei quadri del partito fascista ma è un sistema di dominio di classe in cui proprio gli apparati amministrativi tradizionalmente autoritari hanno parte rilevante. Di parata va piuttosto definita, dato il fallimento dell’epurazione, la democratizzazione post-resistenziale. (C. Pavone, Alle origini della Repubblica).
E IL COMUNISMO?
C’è poi questa strana idea, davvero balzana, della “par condicio” della memoria storica. Un approccio infantile, privo di logica.
Fascismo e comunismo sono due ideologie, esperienze storiche, prassi che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Apparentemente – in modo molto superficiale – una logica c’è. Ma basta cercare di capire per rendersi conto che – al di là del giudizio personale – l’equiparazione non ha senso.
Il fascismo è un’ideologia criminale. Nel migliore dei casi un piccola minoranza, organizzata in una rigida scala gerarchica comanda con violenza, intimidazioni e restrizione della libertà la maggioranza. In molti casi il fascismo ha abbattuto la democrazia, talvolta vincendo le elezioni e poi annullando il sistema democratico – come in Germania – talvolta abbattendo governi democratici – come in Cile e in Spagna. Non c’è mai stato un partito fascista che abbia rispettato le regole democratiche.
La storia del comunismo è molto più complicata e controversa. Intanto nasce come costola del socialismo, e già qui la distinzione tra socialismo e comunismo apre a una serie di problemi.
Il socialismo è un universo di idee politiche su come cambiare il sistema di produzione e distribuzione della ricchezza; l’obiettivo è realizzare la giustizia sociale e l’uguaglianza tra le persone, così da affiancare alle libertà civili e all’uguaglianza giuridica anche una autentica libertà esistenziale (la povertà nega, secondo i socialisti, il principio di libertà). Marx prevalse sulle tante altre idee – anarchici, sindacalisti rivoluzionari, utopisti ecc. – per la forza analitica della sua proposta; per aver inquadrato in un processo storico l’evoluzione del conflitto di classe come motore del progresso.
Ma la collettivizzazione economica e la negazione della libertà non rientravano nella teoria del socialismo. Che ben presto ha conosciuto la spaccatura storica tra rivoluzionari e riformisti. Entrambi hanno avuto successi. I riformisti hanno vinto elezioni politiche in molti paesi e hanno cercato di realizzare il socialismo attraverso riforme nel rispetto delle istituzioni parlamentari. Redistribuzione delle risorse e libertà individuali potevano convivere; in alcuni posti è riuscito meglio, in altri peggio. Resta il fatto che oggi i paesi scandinavi, governati per quasi tutto il Novecento da partiti socialdemocratici sono i più “equi” del mondo e più avanzati in tema di libertà individuali.
La storia dei socialisti rivoluzionari è più complicata. Ci hanno provato molte volte, a partire dalla Comune di Parigi (1871) ma sono sempre stati duramente repressi. A cavallo del secolo socialismo significa più che altro discussioni accesissime in merito a posizioni diverse: la libertà di opinione era data per scontata nell’auspicata società socialista.
Cambia tutto l’esperienza storica dei bolscevichi in Russia. Lenin, alla guida di un piccolo partito di sinistra, vede crescere il suo consenso durante la guerra. Per ottenere il consenso teorizza il potere dei soviet (in teoria una forma più avanzata di partecipazione popolare), alternandola allo slogan di “dittatura del proletariato” … ma in realtà dà vita al modello vincente per fare la rivoluzione: un partito di massa, rigidamente guidato da un comitato centrale con potere assoluto interno.
Una volta riuscita la presa del potere – in un contesto particolare, di guerra e povertà estrema, e con un governo borghese ancora legato allo zar – il potere si è “difeso” sacrificando i principi democratici e adottando lo schema del partito nella gestione dello stato. Si è innescata una spirale di riduzione degli spazi democratici che ha portato l’Urss fuori da ogni logica di democrazia e diritti civili. E quello è stato il modello.
Allo stesso modo Mao ha vinto la guerra civile e costruito un potere statale nuovo (non ha abbattuto un governo democratico). Il comunismo “in espansione” del secondo dopoguerra è emanazione di quel modello. Sul piano internazionale attraverso la terza internazionale il PCUS controllava rigidamente i partiti comunisti nazionali di tutto il mondo con un accordo tacito:
a. negli stati democratici sotto l’influenza degli Stati Uniti i partiti comunisti avrebbero dovuto comportarsi secondo le regole della democrazia rappresentativa; i tentativi di presa del potere sarebbero stati disconosciuti (come infatti avvenne in Grecia).
b. Negli stati sotto l’influenza dell’Urss, sanciti dall’accordo di Yalta, Mosca avrebbe avuto mano libera, e non avrebbe tollerato ingerenze esterne;
c. nel cosiddetto terzo mondo – paesi in fase di decolonizzazione – Usa e Urss si sarebbero giocate la leadership mondiale. Erano paesi questi in cui non c’era né democrazia né ricchezza; un mondo molto difficile da analizzare con gli schemi di cultura politica e sociale tipici dell’Europa e dell’occidente.
In conclusione l’aspetto storiografico esclude, per ragionevolezza, qualcunque operazione di equiparazione dei due fenomeni. Quello che davvero manca, in Italia, è una diffusa consapevolezza della natura criminale del regime fascista e di come esercitò la violenza di massa come elemento costitutivo. Un fatto indiscutibile, attestato da tutta la letteratura mondiale storica, ma sottaciuto probabilmente perché, ben lungi dall’essere ormai una “storia passata”, è utile per riproporre alcune di quelle idee anche negli anni duemila.
(*) In particolare riguardo alla repressione nelle colonie (Labanca, guerra d’Etiopia del 2015 e Dominioni Matteo, Lo sfascio dell’impero 1936-41) e alla questione della politica interna (l’inglese Paul Corner in “Italia fascista” del 2012 e “Consenso totalitario” 2012).